domenica 17 febbraio 2013

Roberto Benigni recita Dante (Inferno: Canto V, Paolo e Francesca)

MUSEO DI FIRENZE, CASA DI DANTE

Statua di Dante a Santa Croce: rappresenta la classica rappresentazione del Sommo Poeta


Il Museo della Casa di Dante si trova in una delle parti più antiche del centro storico di Firenze, in via Santa Margherita.


La casa di dante: La Torre dei Giuochi


Profilo di Dante scolpito su una lastra nel pavimento della piazzetta davanti alla torre


Interno del museo della casa di dante

     

LE MIGLIORI FRASI DI DANTE

  • È chiaro quindi che la pace universale è la migliore tra le cose che concorrono alla nostra felicità. 
  •  L'amor che move il sole e l'altre stelle.
  • Niente dà più dolore che il ricordare i momenti felici nell'infelicità.
  •  L'amore è più forte della vita e tanto vicino alla morte.
  •  Oh creature sciocche quanta ignoranza è quella che v'offende.
  • Tre cose ci sono rimaste del paradiso: le stelle, i fiori e i bambini.
  • Per me si va nella città dolente, per me si va nell'eterno dolore, per me si va tra la perduta gente. Giustizia mosse il mio alto fattore... fecemi la divina potestate la somma sapienza e il primo amore... dinanzi a me non fuor cose create se non etterne... e io etterno duro... lasciate ogni speranza voi ch'entrate.
  • Uomini siete, e non pecore matte.
  • Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende
    prese costui de la bella persona
    che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.
    Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
    mi prese del costui piacer sì forte,
    che, come vedi, ancor non m'abbandona.
    Amor condusse noi ad una morte:
    Caina attende chi a vita ci spense!
  • Amor che a nullo amato amar perdona.

Il SASSO DI DANTE

- Aneddoto su Firenze e sulla vita di Dante Alighieri.

- Pare che Dante fosse solito sedersi sempre sullo stesso sasso in piazza del Duomo mentre era intento ad osservare la costruzione della basilica di Santa Maria del Fiore.
- Un aneddoto popolare narra che mentre il sommo poeta era seduto sul suo sasso preferito un uomo di passaggio gli chiese quale fosse il suo cibo prediletto; senza esitazione Dante rispose “L’ovo”.
- Un anno più tardi lo stesso uomo ripassò dal medesimo luogo e vedendo il poeta ancora immerso nei suoi pensieri gli chiese: “con che cosa?”.
- Prontamente Dante gli rispose: “co i’ sale” dimostrando una memoria davvero fuori dal comune.
- Per osservare il luogo dove era situato il sasso di Dante, attualmente ricordato da una pietra, dovete andare al numero 54 di piazza Duomo, la casa compresa tra piazza delle Pallottole e via dello Studio.
- Questa vicenda ha anche ispirato il nome di un ristorante situato in piazza delle Pallottole che si chiama appunto “Sasso di Dante”.






lunedì 11 febbraio 2013

PARAFRASI DEL SESTO CANTO


Riprendendo coscienza, persa
poco prima a causa del pianto tanto doloroso dei due amanti,
che mi fece abbandonare alla tristezza,
nuovi tormenti e nuove anime tormentate
mi vidi intorno, ovunque mi muovessi
e mi volgessi, ed ovunque guardassi.
Mi trovavo nel terzo cerchio, della pioggia
eterna, maledetta, gelida e violenta;
con ritmo e contenuto mai mutato.
Grossa grandine, acqua torbida e neve
si riversavano sui dannati attraverso quell'aria cupa;
facendo puzzare la terra che ne è imbevuta.
Cerbero, bestia crudele e di forme mostruose,
abbaia in modo rabbioso, come un cane, attraverso le sue tre teste,
sopra le anime dannate immerse in quel fango.
Ha gli occhi rosso sangue, la barba unta e nera,
il ventre largo e le man armate di artigli;
graffia le anime dannate, scuoiandole e squartandole.
La pioggia fa urlare i peccatori come fossero dei cani;
si mettono di lato per proteggere un lato del loro corpo, sacrificando l'altro;
i poveri profani si girano quindi spesso per cercare di attenuare il dolore.
Quando ci vide, Cerbero, demone dell'ingordigia,
aprì le sue tre bocche mostrandoci le zanne;
il suo urlo era tanto rabbioso che ogni parte del suo corpo vibrava.
Virgilio allora si chinò con le mani aperte,
prese del fango, riempiendosi i pugni,
e lo gettò dentro a quelle avide gole.
Come un cane che, abbaiando, desidera avidamente il pasto
e dopo averlo avuto si tranquillizza,
pensando solo a divorarlo, e si affatica nel farlo,
allo stesso modo fecero quelle tre gole sporche
del demonio Cerbero, con le quali stordisce le anime
tanto che esse vorrebbero essere sorde per non sentirlo.
Passammo sopra quelle anime indebolite
dalla estenuante pioggia, e ponemmo le piante dei piedi
sopra quei loro corpi artificiosi che li facevano sembrare persone in carne ed ossa.
Erano tutte quante distese per terra,
ad eccezione di una, che si alzò a sedere non appena
ci vide passare davanti.
"O tu, che viene condotto lungo questo inferno,"
mi disse, "prova a riconoscermi, se riesci:
tu sei nato prima che io morissi."
Ed io gli risposi: "La pena alla quale sei sottoposto
forse ti sfigura tanto che non riesco a richiamarti alla memoria,
così che non mi sembra di averti mai visto.
Dimmi allora tu chi sei, tu che in un luogo tanto dolente
sei stato recluso, e sei sottoposto ad una punizione tale
che, anche se ce ne fosse di peggiori, nessuna sarebbe comunque più disgustosa.
E lui a me: "La tua città, Firenze, che è tanto piena
d'invidia da non riuscire a trovare più posto dove metterla,
mi accolse quando fui in vita.
Voi cittadini mi deste il nome di Ciacco (porco):
ed a causa di quel mio dannoso vizio di gola,
sono stato messo qui, come puoi vedere, indebolito dall'incessante pioggia.
E non sono l'unica anima triste ad essere in questa condizione,
poiché tutte queste che vedi, sono sottoposte ad una simile
punizione per una simile colpa." Rimase poi in silenzio.
Io gli risposi: "Ciacco, la tua sofferenza
mi intristisce tanto da spingermi al pianto;
ma dimmi, se lo sai, a quale destino andranno incontro
i cittadini di Firenze, città divisa in fazioni, con le loro contese;
dimmi se esistono ancora persone corrette; e dimmi il motivo
per cui si trova in così tanta discordia."
E lui mi rispose: "Dopo una lunga situazione di tensione verbale,
inizierà un sanguinoso scontro fisico, e la fazione selvaggia,
i Bianchi, caccerà l'altra, i Neri, con molte perdite.
In seguito i Bianchi dovranno cadere,
entro tre anni, ed i Neri avranno la meglio
con l'aiuto di un principe che ora giunge per mare.
I Neri potranno tenere alte le fronti per lungo tempo,
opprimendo i Bianchi con pesi difficili da sostenere,
per quanto questi piangano e si reputino offesi.
Di persone corrette ce ne sono due di numero, pochissime, ma non vengono ascoltate;
la superbia, l'invidia e l'avarizia sono le
tre scintille che hanno infiammato gli animi dei fiorentini."
Così Ciacco terminò le sue dolorose dichiarazioni.
Ed io ripresi a parlargli: "Voglio ancora altre informazioni da te
e che quindi tu mi faccia dono di altra parole.
Farinata ed il Tegghiaio, che furono persone tanto meritevoli,
Giacomo Rusticucci, Enrico ed il Mosca ed anche gli altri
che misero il loro ingegno al servizio della patria,
dimmi dove posso trovarli e fammeli conoscere:
perché ho un grande desiderio di sapere
se gustano la dolcezza del paradiso o soffrono per l'amaro inferno.
E Ciacco disse: "Loro sono tra le anime peggiori;
peccati di diversa natura li opprimono giù nel profondo inferno:
se scendi tanto in fondo, potrai incontrarli e vederli.
In cambio del mio parlare, quando sarai tornato nel dolce
mondo, ti prego di ricordarmi ai vivi:
non ti dirò altro né ti risponderò oltre."
Detto ciò si mise sul fianco, guardandomi di lato;
mi osservò ancora un poco e poi chinò la testa:
cadde quindi a terra come gli altri compagni accecati dal fango.
La mia guida mi disse: "Non si solleverà più dal fango
fino a che l'angelo della resurrezione non suonerà la sua tromba,
quando arriverà il Giudice supremo, nemico dei malvagi:
ognuno rivedrà allora la sua triste tomba,
riprenderà il proprio corpo e la propria immagine,
ascolterà il verdetto del Giudice supremo, valido per l'eternità."
Attraversammo quella sporca mistura
di anime e di pioggia, a passi lenti,
ragionando un poco circa la vita futura.
Domandai quindi a Virgilio: "Maestro, questi tormenti, queste
pene, aumenteranno dopo la sentenza del Giudice,
verranno ridotte o saranno di eguale intensità?"
Mi rispose: "Domandalo alla tua scienza preferita, la filosofia,
che dice che quanto più l'essere è perfetto,
tanto più è sensibile al bene come al male.
Perciò, sebbene queste anime maledette
non raggiungeranno mai una vera perfezione,
si aspettano di averne di più dopo il giudizio estremo: dopo soffriranno pertanto di più."
Proseguimmo intorno al terzo cerchio,
parlando più di quanto sto riportando;
giungemmo infine al punto dove si scendeva al quarto cerchio:
lì incontrammo Pluto, demonio della ricchezza, grande nemico del genere umano.

SESTO CANTO

      Al tornar de la mente, che si chiuse
dinanzi a la pietà d’i due cognati,
che di trestizia tutto mi confuse,
      novi tormenti e novi tormentati
mi veggio intorno, come ch’io mi mova
e ch’io mi volga, e come che io guati.
      Io sono al terzo cerchio, de la piova
etterna, maladetta, fredda e greve;
regola e qualità mai non l’è nova.
      Grandine grossa, acqua tinta e neve
per l’aere tenebroso si riversa;
pute la terra che questo riceve.
      Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa.
      Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e ’l ventre largo, e unghiate le mani;
graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra.
      Urlar li fa la pioggia come cani;
de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo;
volgonsi spesso i miseri profani.
      Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
le bocche aperse e mostrocci le sanne;
non avea membro che tenesse fermo.
      E ’l duca mio distese le sue spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
la gittò dentro a le bramose canne.
      Qual è quel cane ch’abbaiando agogna,
e si racqueta poi che ’l pasto morde,
ché solo a divorarlo intende e pugna,
      cotai si fecer quelle facce lorde
de lo demonio Cerbero, che ’ntrona
l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde.
      Noi passavam su per l’ombre che adona
la greve pioggia, e ponavam le piante
sovra lor vanità che par persona.
      Elle giacean per terra tutte quante,
fuor d’una ch’a seder si levò, ratto
ch’ella ci vide passarsi davante.
      «O tu che se’ per questo ’nferno tratto»,
mi disse, «riconoscimi, se sai:
tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto».
      E io a lui: «L’angoscia che tu hai
forse ti tira fuor de la mia mente,
sì che non par ch’i’ ti vedessi mai.
      Ma dimmi chi tu se’ che ’n sì dolente
loco se’ messo e hai sì fatta pena,
che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente».
      Ed elli a me: «La tua città, ch’è piena
d’invidia sì che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena.
      Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.
      E io anima trista non son sola,
ché tutte queste a simil pena stanno
per simil colpa». E più non fé parola.
       Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno
mi pesa sì, ch’a lagrimar mi ’nvita;
ma dimmi, se tu sai, a che verranno
      li cittadin de la città partita;
s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione
per che l’ha tanta discordia assalita».
      E quelli a me: «Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà l’altra con molta offensione.
      Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli, e che l’altra sormonti
con la forza di tal che testé piaggia.
      Alte terrà lungo tempo le fronti,
tenendo l’altra sotto gravi pesi,
come che di ciò pianga o che n’aonti.
      Giusti son due, e non vi sono intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c’hanno i cuori accesi».
      Qui puose fine al lagrimabil suono.
E io a lui: «Ancor vo’ che mi ’nsegni,
e che di più parlar mi facci dono.
      Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca
e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni,
      dimmi ove sono e fa ch’io li conosca;
ché gran disio mi stringe di savere
se ’l ciel li addolcia, o lo ’nferno li attosca».
      E quelli: «Ei son tra l’anime più nere:
diverse colpe giù li grava al fondo:
se tanto scendi, là i potrai vedere.
      Ma quando tu sarai nel dolce mondo,
priegoti ch’a la mente altrui mi rechi:
più non ti dico e più non ti rispondo».
      Li diritti occhi torse allora in biechi;
guardommi un poco, e poi chinò la testa:
cadde con essa a par de li altri ciechi.
      E ’l duca disse a me: «Più non si desta
di qua dal suon de l’angelica tromba,
quando verrà la nimica podesta:
      ciascun rivederà la trista tomba,
ripiglierà sua carne e sua figura,
udirà quel ch’in etterno rimbomba».
      Sì trapassammo per sozza mistura
de l’ombre e de la pioggia, a passi lenti,
toccando un poco la vita futura;
      per ch’io dissi: «Maestro, esti tormenti
crescerann’ei dopo la gran sentenza,
o fier minori, o saran sì cocenti?».
      Ed elli a me: «Ritorna a tua scienza,
che vuol, quanto la cosa è più perfetta,
più senta il bene, e così la doglienza.
      Tutto che questa gente maladetta
in vera perfezion già mai non vada,
di là più che di qua essere aspetta».
      Noi aggirammo a tondo quella strada,
parlando più assai ch’i’ non ridico;
venimmo al punto dove si digrada:
      quivi trovammo Pluto, il gran nemico.


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PARAFRASI DEL QUINDO CANTO

Scesi così dal primo cerchio dell'inferno
giù nel secondo, che circonda un logo meno vasto
ma racchiude un dolore maggiore, che spinge a guaire.
Minosse sta sull'entrata, ringhiando e con atteggiamento
orribile: esamina le colpe delle anime all'ingresso;
le giudica e le indirizza a seconda di come avvolge la coda.
Dico che quando la disgraziata anima
giunge dinanzi a lui, fa a lui piena confessione dei peccati;
ed egli, grande conoscitore dei peccati,
capisce quale girone dell'inferno è più adatta ad essa;
si cinge con la propria coda tante volte quanti sono i gironi
per i quali vuole che l'anima sia fatta precipitare.
Di fronte a lui stanno sempre molte anime:
ciascuna secondo il proprio turno si sottopone al suo giudizio,
confessano, ascoltano e poi vengono gettate nell'abisso.
"Oh tu, che viene in questo luogo pieno di dolori",
disse Minosse rivolto a me quando mi vide,
abbandonando le funzioni del suo alto compito,
"guardati bene da quello che fai entrando qui e da colui nel quale poni la tua fiducia;
non ti illudere vedendo l'entrata dell'inferno tanto ampia ed agevole!"
E la mia guida verso di lui: "Perché continui a gridare?"
"Non cercare di impedire il cammino a cui è destinato:
così è stato deciso in paradiso, là dove di può fare
ciò che si vuole, e non chiedere altro."
Le voci straziate delle anime dannate cominciano adesso
a giungere al mio orecchio; sono ora giunto
in un luogo dove pianto disperato mi ferisce l'orecchio.
Giunsi in un luogo completamente buio,
che rumoreggiava come fa il mare agitato da una tempesta,
quando viene percosso da venti tra loro opposti.
La bufera infernale, che mai si arresta,
travolge nel suo turbine gli spiriti dannati;
li tormenta sbattendoli qua e là e percotendoli.
Quando giungono davanti al dirupo:
urla d'ira, richieste di compassione, lamenti estenuanti;
bestemmiano contro il potere divino che li condanna.
Compresi che a simile tortura
sono dannati i peccatori carnali, i lussuriosi,
che sottomisero la ragione alle voglie della passione.
E così come gli stornelli sono portati dalle ali,
durante la stagione invernale,  in una schiera larga e compatta,
così quel vento gli spiriti maligni
conduce ora di qua, ora di là, ora in basso ed ora in alto;
Non possono avere il conforto della speranza,
non solo di poter riposare, ma nemmeno di poter avere minore pena.
E come le gru che vanno cantando con le loro voci lamentose,
creando in cielo un lunga riga di sé,
così vidi venire, emettendo guaiti di dolore,
anime dannate portate dalla tormenta di cui parlo;
Domandai perciò: "Maestro, chi sono quelle
anime che la cupa tormenta tortura in questo modo?"
"La prima di loro della quale
tu vuoi avere notizie", mi disse allora Virgilio,
"fu imperatrice di molte nazioni, di popoli di svariate lingue.
Al vizio della lussuria fu tanto devota,
da rendere il suo capriccio rese legittimo tramite una legge,
per cancellare la mala fama in cui era caduta.
Lei è Semiramide, della quale si legge
che sia succeduta a Nino, re Assiro, e fu prima sua sposa:
dominò le terre ora governate dal Sultano.
L'altra è Didone, colei che si uccise perché innamorata e trascurata da Enea,
e tradì il giuramento fatto sulle ceneri del marito defunto Sicheo;
l'ultima infine è la lussuriosa Cleopatra.
Vedi quindi Elena di Troia, a causa della quale tanto tempo
infelice fu trascorso in guerra, e vedi anche il famoso Achille,
che alla fine della propria vita combatté e fu sconfitto dall'amore per Polissena
Vedi poi Paride, Tristano"; e più di mille
anime mi indicò con il dito e nominò,
che a causa dell'amore abbandonarono la vita.
Dopo che ebbi udito il mio maestro
nominare le donne del tempo passato ed i cavalieri,
fui invaso dalla pietà e fui quasi turbato.
Comincia quindi a dire: "Poeta, volentieri
parlerei a quei due che vanno insieme,
e nel vento sembrano essere tanto leggeri
E lui mi disse: "Attendi che siano
più vicini a noi; pregali allora di parlarti
in nome di quell'amore che li conduce, ed essi verranno a te."
Non appena il vento li fece curvare verso di noi,
iniziai a parlare: "Oh anime tormentata,
venite a parlare con noi, se nessuno ve lo impedisce!"
Come colombe, chiamate dal desiderio dei loro piccoli,
con le ali innalzate e ferme al dolce nido
vanno per via aerea, condotte dal proprio affetto;
così costoro uscirono dalla schiera di anime dove c'era Didone,
per venire da noi attraverso quel vento maligno,
tanto fu forte il mio grido affettuoso.
Disse una: "Oh uomo ancora, vivo dal cuore delicato e cortese,
che vieni a visitare, attraverso questa scura atmosfera,
noi che in vita abbiamo macchiato il mondo con il nostro sangue,
se Dio, re dell'universo, ci fosse amico,
lo pregheremmo perché tu possa vivere in pace,
poiché mostri pietà per il nostro male perverso.
Dicci puro che cosa vuoi udire e di cosa hai piacere di parlare,
noi vi ascolteremo e parleremo con voi volentieri,
finché il vento si mantiene quieto qui dove siamo.
Io nacqui a Ravenna, dove la terra poggia
sulla costa del mare, là dove il Po sfocia nell'Adriatico
per avere pace insieme ai suoi affluenti.
L'Amore, che subito accende il cuore gentile,
infiammò questo mio compagno attraverso quel bel corpo
che mi fu tolto; ed il modo selvaggio in cui mi fu tolto ancora oggi mi offende.
L'Amore, che esige che chi è amato contraccambi l'amare,
mi infiammò tanto forte per la bellezza di costui,
che, come puoi vedere, ancora non mi abbandona.
L'Amore ci condusse ad una stessa morte.
Ma la Caina, nell'ultimo cerchio infernale, attende colui che ci tolse la vita."
Queste parole furono da loro pronunciate a noi.
Quando appresi la storia di quelle anime tormentate,
chinai il viso, pensoso, e lo tenni basso per molto tempo,
fino a ché il poeta mi chiese: "A cosa stai pensando?"
Quando potei rispondere, cominciai a dire: "Misero me,
quanti dolci pensieri, quanta passione
condusse costoro al doloroso passo della morte!"
Quindi mi rivolsi alle anime e fui io a parlare,
dissi: "Francesca da Rimini, le tue pene
mi strappano lacrime di tristezza e pietà.
Ma dimmi: al tempo dei vostri dolci sospiri d'amore,
con che segno ed in che modo l'Amore vi permise
di conoscere l'inespresso desiderio dell'altra persona?"
E Francesca rivolta a me: "Non c'è maggiore dolore
che quello che si prova richiamando alla memoria il tempo felice,
quando ci si trova ormai in miseria; e questo lo sa bene la tua guida.
Ma se desideri tanto conoscere il primissimo inizio
del nostro amore,
te lo racconterò, mischiando le lacrime alle parole.
Un giorno stavamo leggendo insieme, per puro piacere,
la storia di Lancillotto e di come l'amore lo infiammò;
eravamo soli e senza alcun sospetto del pericolo.
Per più volte  quella lettura spinse i nostri occhi ad incontrarsi,
e ci fece perdere colore in viso;
ma solo un punto della storia vinse la resistenza di entrambi.
Quando leggemmo che la bocca ridente di Ginevra, tanto desiderata,
venne baciata da quel tanto famoso amante,
il mio compagno, che mai potrà essere separato da me,
tutto tremante mi baciò sulla bocca.
Galeotto fu il libro e chi lo scrisse:
quel giorno non riuscimmo a leggere oltre."
Mentre uno spirito mi raccontava questa storia,
l'altro, Paolo Malatesta, piangeva; tanto che, per la pietà,
persi i sensi e svenni, come se fossi morto di crepacuore.
E caddi inerte, come cadrebbe un corpo morto.

QUINTO CANTO

      Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia,
e tanto più dolor, che punge a guaio.
      Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.
      Dico che quando l’anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata
      vede qual loco d’inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
      Sempre dinanzi a lui ne stanno molte;
vanno a vicenda ciascuna al giudizio;
dicono e odono, e poi son giù volte.
      «O tu che vieni al doloroso ospizio»,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l’atto di cotanto offizio,
      «guarda com’entri e di cui tu ti fide;
non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!».
E ’l duca mio a lui: «Perché pur gride?
      Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».
      Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.
      Io venni in loco d’ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.
      La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
      Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.
      Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
      E come li stornei ne portan l’ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali
      di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
      E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid’io venir, traendo guai,
      ombre portate da la detta briga;
per ch’i’ dissi: «Maestro, chi son quelle
genti che l’aura nera sì gastiga?».
      «La prima di color di cui novelle
tu vuo’ saper», mi disse quelli allotta,
«fu imperadrice di molte favelle.
      A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per t•rre il biasmo in che era condotta.
      Ell’è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che ’l Soldan corregge.
      L’altra è colei che s’ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussuriosa.
      Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi ’l grande Achille,
che con amore al fine combatteo.
      Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch’amor di nostra vita dipartille.
      Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito
nomar le donne antiche e ’ cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
      I’ cominciai: «Poeta, volontieri
parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggeri».
      Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno».
      Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s’altri nol niega!».
      Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere dal voler portate;
      cotali uscir de la schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettuoso grido.
      «O animal grazioso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
      se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso.
      Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che ’l vento, come fa, ci tace.
      Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ’l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.
      Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.
      Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
      Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.
      Quand’io intesi quell’anime offense,
china’ il viso e tanto il tenni basso,
fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?».
      Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».
      Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
      Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette Amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».
      E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.
      Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
      Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
       Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
       Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
      la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».
      Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.
      E caddi come corpo morto cade.


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PARAFRASI DEL TERZO CANTO


"Attraverso me si va nella città del dolore,
attraverso me si va nell'eterno dolore,
attraverso me si va tra le genti dannate.
Fui fabbricata da Dio eccelso mosso da giustizia;
mi fece la Divina potenza,
la suprema Sapienza ed il primo Amore.
Prima di me ci furono solo creature
immortali, ed anche io durerò in eterno.
Abbandonate per sempre ogni speranza voi che entrate."
Queste parole in colore scuro
vidi io scritte nella parte alta di una porta;
perciò io dissi: "Maestro, il loro significato mi fa paura."
Ed egli mi disse quindi, da persona esperta:
"Qui deve essere abbandonato ogni dubbio;
ogni vigliaccheria deve essere qui cessata per sempre.
Noi siamo giunti in quel luogo del quale ti ho parlato,
nel quale vedrai le anime dannate
che hanno perduto Dio, nutrimento dell'intelletto."
E dopo avermi preso per mano
con espressione lieta, che mi diede coraggio,
mi condusse all'interno al misterioso mondo dei morti.
All'interno sentii sospiri, pianti e forti guaiti,
risuonare in quell'ambiente chiuso e cupo,
per i quali mi venne subito da piangere.
Strane lingue parlate, orribili modi di esprimersi,
parole di dolore, intonazioni che esprimevano rabbia,
voci forti e voci deboli, e con esse rumori di mani occupate a percuotere
facevano una gran confusione, che non cessa mai di agitarsi
in quell'aria eternamente buia,
così come la sabbia viene agitata nel deserto dal vortice d'aria che la circonda.
Ed io, che avevo la testa immersa nei dubbi,
chiesi a Virgilio: "Maestro, cos'è questa confusione che sento?
e chi sono queste anime che sembrano tanto afflitte dal dolore?"
E lui mi rispose: "In questa miserabile condizione
vengono tenute le anime tristi degli ignavi, coloro
che vissero, in modo insignificante, senza disonori ma anche senza meriti.
Si trovano qui mischiate a quel cattivo gruppo
di angeli che non furono né ribelli, nella ribellione di Lucifero,
né fedeli a Dio, ma si curarono solo di sé stessi.
Sono stati cacciati dal cielo perché ne rovinerebbero la bellezza,
ma neanche il profondo inferno li accoglie,
perché i dannati potrebbero gloriarsi, sentendosi superiori, della loro presenza.
Dissi allora: "Maestro, a che pena tanto dolorosa
sono loro sottoposti per lamentarsi tanto forte?"
Mi rispose: "Te lo spiegherò molto brevemente.
Costoro non possono sperare di cessare d'esistere,
e questa loro vita senza speranze è tanto spregevole
da renderli invidiosi di qualunque altra sorte.
Il mondo non lascia che si conservi qualche ricordo di loro;
la misericordia divina e la giustizia infernale li rifiutano con disprezzo:
non perdiamo tempo a parlare di loro, osservali solo e procedi oltre."
Ed io, che osservai, vidi una insegna
che girando tra le anime procedeva tanto velocemente
che sembrava non dovesse mai trovare una posizione fissa;
e dietro a le, seguendola, procedeva fila una così lunga
di gente, che io non avrei mai potuto credere
che la morte avesse fatto tante vittime.
Avendo riconosciuto alcune delle anime,
guardai più attentamente e riconobbi l'anima di colui
che per viltà rifiutò la carica papale (Celestino V).
Capii subito e ne fui anche certo
che questa era la schiera dei vili, dei codardi,
che non piacciono a Dio, perché non buoni, e nemmeno ai suoi nemici, perché non malvagi.
Questi disgraziati, che mai furono realmente vivi,
stavano nudi ed erano continuamente punzecchiati
dai mosconi e dalle vespe che si trovavano là con loro.
Le punture facevano scorre sui loro volti sangue,
che, mischiato alle loro lacrime, cadeva a terra ed ai loro piedi
veniva raccolto da vermi schifosi.
Spingendo oltre lo sguardo,
vidi molta gente in riva ad un grande fiume;
dissi perciò a Virgilio: "Maestro, concedimi ora
di sapere chi sono quelle anime e quale legge
le rende tanto desiderose di oltrepassare quel fiume,
come mi sembra di vedere attraverso questa scarsa luce."
Ed egli disse: "Queste cose ti saranno chiare
quando ci fermeremo noi stessi
sulla dolorosa sponda del fiume Acheronte."
Allora, con gli occhi bassi e pieni di vergogna per la risposta ricevuta,
temendo che il mio continuo chiedere non fosse gradito,
mi astenni dal parlare fino a che non raggiungemmo il fiume.
Ed ecco, una volta giunti, venire verso di noi su di una nave
un vecchio, tutto bianco per l'età avanzata,
gridando: "Guai a voi, anime malvagie!
Non sperate di poter mai vedere il cielo:
io vengo per condurvi sull'altra sponda del fiume,
nella notte eterna dell'inferno, al fuoco ed al gelo a seconda della vostra condanna.
E tu che, anima ancora attaccata al corpo mortale, ti trovi qui,
tieniti lontana da questi altri che invece sono già morti."
Ma dopo aver visto che non mi allontanavo,
disse: "Per una altra via, per altri porti giungerai
sulla spiaggia dell'eternità, non puoi passare da qui:
ti deve trasportare una barca ben più leggera di questa."
E la mia guida gli disse allora: "Caronte, non ti tormentare:
fu deciso così in cielo, là dove si può fare
ciò che si vuole, e non domandare altro."
Si placarono quindi le lanose guace
del barcaiolo di quella cupa palude,
che intorno agli occhi aveva occhiaie simili al fuoco.
Mentre le anime che aspettavano sulla riva, stanche  e senza alcun riparo,
impallidirono e batterono i denti per la paura
non appena udirono le dure parole di Caronte.
Bestemmiavano Dio ed i loro genitori,
tutta il genere umano, il luogo e il tempo della loro nascita
ed i genitori dei loro genitori, causa prima della loro nascita.
Si raccolsero quindi tutte insieme,
piangendo forte, sulla riva malvagia di quel fiume,
che attende tutti i peccatori, ogni uomo che agisce senza timore di Dio.
Il diavolo Caronte, con i suoi occhi fiammeggianti,
con un solo cenno raccoglie tutte le anime sulla barca;
colpisce con il remo chiunque si attardi a salire.
Come in autunno le foglie cadono dagli alberi
l'una dopo l'altra, fino a ché il ramo
vede giacere in terra tutte le sue spoglie,
allo stesso modo, quei cattivi discendenti di Adamo
si lanciano dalla riva sulla barca di Caronte una ad una,
ad un suo cenno, come l'uccello spinto dal richiamo del cacciatore.
Quindi procedono in barca su quell'acqua scura,
e non fanno in tempo a scendere sull'altra sponda del fiume,
che una nuova schiera di anime si è già radunata sulla prima sponda.
"Figliolo mio", mi disse in modo cortese il mio maestro,
"quelli che sono morti nel peccato capitale, suscitando l'ira di Dio,
tutti giungono poi qui da ogni parte del mondo;
e sono tutti pronti per oltrepassare il fiume Acheronte,
spinti dalla giustizia divina tanto
che la paura per il loro destino viene tramutata in desiderio.
Da qui non passa mai nessuna anima buona, non dannata;
perciò, se Caronte si lamentò della tua presenza,
puoi ben capire quanto possa essere un buon segno".
Finito questo discorso, la buia campagna dove ci trovavamo
cominciò a tremare tanto forte che il suo ricordo,
per lo spavento, mi fa ancora gocciolare di sudore.
Da quella terra di pianti si sprigionò un forte vento,
che lampeggiò con una luce rossa,
la quale mi fece perdere coscienza;
e caddi quindi a terra come chi improvvisamente è vinto dal sonno.

TERZO CANTO

       "Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l’etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
       Giustizia mosse il mio alto fattore:
fecemi la divina podestate,
la somma sapienza e ’l primo amore.
       Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate".
       Queste parole di colore oscuro
vid’io scritte al sommo d’una porta;
per ch’io: «Maestro, il senso lor m’è duro».
       Ed elli a me, come persona accorta:
«Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne viltà convien che qui sia morta.
       Noi siam venuti al loco ov’i’ t’ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c’hanno perduto il ben de l’intelletto».
       E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond’io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose.
       Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l’aere sanza stelle,
per ch’io al cominciar ne lagrimai.
       Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle
       facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira.
       E io ch’avea d’error la testa cinta,
dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo?
e che gent’è che par nel duol sì vinta?».
       Ed elli a me: «Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ’nfamia e sanza lodo.
       Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.
       Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli».
       E io: «Maestro, che è tanto greve
a lor, che lamentar li fa sì forte?».
Rispuose: «Dicerolti molto breve.
       Questi non hanno speranza di morte
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ’nvidiosi son d’ogne altra sorte.
       Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa».
       E io, che riguardai, vidi una ’nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d’ogne posa mi parea indegna;
       e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente, ch’i’ non averei creduto
che morte tanta n’avesse disfatta.
       Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto.
       Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta d’i cattivi,
a Dio spiacenti e a’ nemici sui.
       Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch’eran ivi.
       Elle rigavan lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi
da fastidiosi vermi era ricolto.
       E poi ch’a riguardar oltre mi diedi,
vidi genti a la riva d’un gran fiume;
per ch’io dissi: «Maestro, or mi concedi
       ch’i’ sappia quali sono, e qual costume
le fa di trapassar parer sì pronte,
com’io discerno per lo fioco lume».
       Ed elli a me: «Le cose ti fier conte
quando noi fermerem li nostri passi
su la trista riviera d’Acheronte».
       Allor con li occhi vergognosi e bassi,
temendo no ’l mio dir li fosse grave,
infino al fiume del parlar mi trassi.
       Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: «Guai a voi, anime prave!
       Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vegno per menarvi a l’altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo.
       E tu che se’ costì, anima viva,
pàrtiti da cotesti che son morti».
Ma poi che vide ch’io non mi partiva,
       disse: «Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno convien che ti porti».
       E ’l duca lui: «Caron, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».
       Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude,
che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote.
       Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude,
cangiar colore e dibattero i denti,
ratto che ’nteser le parole crude.
       Bestemmiavano Dio e lor parenti,
l’umana spezie e ’l loco e ’l tempo e ’l seme
di lor semenza e di lor nascimenti.
       Poi si ritrasser tutte quante insieme,
forte piangendo, a la riva malvagia
ch’attende ciascun uom che Dio non teme.
       Caron dimonio, con occhi di bragia,
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s’adagia.
       Come d’autunno si levan le foglie
l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie,
       similemente il mal seme d’Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo.
       Così sen vanno su per l’onda bruna,
e avanti che sien di là discese,
anche di qua nuova schiera s’auna.
       «Figliuol mio», disse ’l maestro cortese,
«quelli che muoion ne l’ira di Dio
tutti convegnon qui d’ogne paese:
       e pronti sono a trapassar lo rio,
ch‚ la divina giustizia li sprona,
sì che la tema si volve in disio.
       Quinci non passa mai anima buona;
e però, se Caron di te si lagna,
ben puoi sapere omai che ’l suo dir suona».
       Finito questo, la buia campagna
tremò sì forte, che de lo spavento
la mente di sudore ancor mi bagna.
       La terra lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;
      e caddi come l’uom cui sonno piglia.


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PARAFRASI DEL PRIMO CANTO


Nel mezzo del cammino della mia vita, a ormai 35 anni,
mi ritrovai in una selva scura
poiché avevo smarrito la via della giustizia.
Descrivere quella selva è cosa dura, penosa,
quanto selvaggia, intricata ed impraticabile fosse,
tanto che il solo suo pensiero mi rinnova la paura d'allora!
Causa tanta amarezza, poco meno di quella causata dalla morte;
Ma per parlar del bene che vi trovai,
dirò delle altre cose che io vidi là dentro.
Io non so ridire con precisione come vi entrai,
tanto ero pieno di sonno in quel momento, di incoscienza,
in cui abbandonai la via della giustizia.
Ma dopo che fui giunto ai piedi di un colle,
al termine di quella valle oscura,
che mi aveva afflitto di paura il cuore,
guardai in alto e vidi le spalle del colle, i suoi alti pendii,
vestiti, illuminati già dai raggi del Sole che conduce
ogni essere umano lungo la via, la vita, che a ciascuno spetta. 
Allora mi si calmò un poco la paura,
che nel profondo del cuore mi era durata
tutta quella notte trascorsa con tanta pietosa angoscia. 
E come il naufrago, colui che con respiro affannoso,
uscito sulla riva fuori dagli abissi marini,
si volge indietro verso l'acqua infida, pericolosa,
così l'anima mia, che ancor fuggiva per lo spavento,
si volse indietro a riguardare il percorso compiuto,
che non lasciò mai prima di allora superstite.
Poi che ebbi riposato il corpo stanco,
ripresi la via lungo quel lieve pendio deserto,
così che il piede sicuro ere sempre quello più in basso.
Ed ecco, quasi al cominciare della salita, apparire
una lince (la lussuria) agile e molto rapida nei movimenti,
coperta da un manto di pelliccia maculato;
e non smetteva di starmi di fronte,
anzi cercava di impedire a tal punto il mio cammino,
che fui più volte sul punto di tornare indietro.
Era il principio del mattino, tempo
in cui il sole saliva in cielo con quelle stelle, l'Ariete,
che erano con lui quando l'Amore divino  e creatore
impresse il primo moto a quelle belle cose celesti;
così che avevo buon motivo di sperare
riguardo a quella bestia dal variopinto,
grazie all'ora del mattino ed alla dolce stagione primaverile;
ma la mia speranza non fu tanto salda da non spaventarmi
per la vista di un Leone (la superbia) che mi apparve dinanzi. 
Questa belva sembrava avanzare contro di me
a testa alta e spinto da una fame  rabbiosa,
tanto che sembrava che anche l'aria tremasse per paura.
E la vista di una lupa (l'avarizia) che di tutti i desideri più
ardenti sembrava carica nella sua magrezza,
e molti popoli aveva già fatto vivere nel dolore, 
questa lupa mi oppresse tanto l'anima,
con la paura causata dalla sua vista, che persi
la speranza di proseguire nell'ascesa verso la cima.
E come l'avaro, colui che è tutto voglioso di acquistare,
giunto il tempo in cui perde tutto ciò che aveva acquistato,
piange ed ogni suo pensiero non fa che rattristarlo;
tale mi rese quella bestia irrequieta,
che, venendo verso di me, a poco a poco
mi spingeva  nuovamente verso l'oscura selva.
Mentre correvo rovinosamente verso la valle,
dinanzi agli occhi mi comparve un individuo
la cui voce sembrava essere divenuta debole per il lungo silenzio.
Quando vidi costui in quella grande solitudine,
"Abbi pietà di me", gridai a lui, "qualunque cosa tu sia,
o ombra, spirito, o uomo in carne ed ossa!"
Mi rispose lui: "Non sono un uomo, ma un uomo sono stato,
ed i miei genitori furono lombardi,
entrambi di origine mantovana, di Mantova.
Nacqui al tempo di Giulio Cesare, sebbene troppo tardi,
e vissi a Roma al tempo del buon Augusto,
quando ancora venivano adorati déi falsi e bugiardi.
In vita sono stato un poeta ed ho cantato le gesta del devoto
Enea, figlio di Anchise, che giunse in Italia da Troia
dopo che la superba Ilio venne incendiata.
Ma tu perché stai torno alla selva, causa di tanto danno?
Perché non sali lungo il delizioso monte
che è origine e causa di ogni felicità?
"Tu sei allora il famoso Virgilio, la fonte
dalla quale fluisce il grande fiume dell'eloquenza?"
Risposi io a lui tenendo la fronte bassa.
"O onore e luce degli altri poeti,
sia dia mia utilità il lungo studio ed il grande amore
che mi spinse a ricercare le tue opere.
Tu sei il mio maestro ed il mio autore preferito,
se tu solo colui dal quale ho appreso
il mio bello stile che mi dato tanta fama.
Guarda la bestia che mi ha fatto volgere indietro;
aiutami contro di lei, famoso saggio,
perché lei mi fa tremare tutto di paura."
"Conviene che percorri un'altra via",
rispose Virgilio, vedendo che piangevo,
"se vuoi sopravvivere da questo luogo selvaggio;
perché questa bestia, la lupa, a causa della quale tu gridi
di paura, non lascia che nessuno passi attraverso la sua via,
anzi, tanto si oppone da uccidere chiunque ci tenti;
ed ha una natura tanto malvagia e cattiva,
che mai soddisfa la propria ingordigia,
e dopo ogni pasto ha più fame di prima.
Molti sono gli animali con i quali si unisce,
e saranno ancora più numerosi finché il veltro, veloce cane da
caccia, non arriverà e la fare morire con grande dolore fisico.
Questo veltro non si nutrirà né di potere e né di denaro,
ma di sapienza, amore e virtù,
ed avrà origini da umili e bassi parenti.
Egli sarà la salvezza di quella umile Italia
per la quale morì la vergine Camilla,
Eurialo, Turno e Niso a causa delle ferite.
Questo veltro darà la caccia alla lupa in ogni villaggio,
fino a ché non l'avrà fatta tornare nell'inferno,
là dove l'invidia l'ha in precedenza liberata e scatenata.
Perciò io penso e giudico che per te sia meglio
che tu mi segua, io sarò la tua guida,
e ti condurrò via da qui attraverso i regni dell'eternità;
nei quali ascoltai le disperate grida acute dei dannati,
vedrai gli spiriti afflitti sin dai tempi più antichi,
ciascuno dei quali chiede con grida la seconda morte;
vedrai quindi, nel purgatorio, coloro che sono contenti
di stare nel fuoco, perché sperano di salire,
quando sarà il momento, tra le anime beate del paradiso.
Tra le quali poi, se tu vorrai salire in paradiso,
ci sarà un anima più degna di me a guidarti:
ti lascerò con lei prima di lasciarti;
perché quell'imperatore che regna là su in paradiso
essendo stato io, pagano, ribelle alla sua legge,
non vuole che io salga nella sua città.
Domina in ogni luogo e là su comanda;
là si trova la sua città e il suo sublime trono:
oh quanto è felice chi da lui viene ammesso lassù in paradiso!"
Dissi io a Virgilio: "Poeta, io ti prego,
in nome di quel Dio che tu non conoscesti,
affinché possa scampare da questo male e da altri peggiori,
che tu mi conduca in quei posti che ha ora descritto,
così che io possa vedere la porta custodita da san Pietro
e quelle persone che tu dici essere tanto tristi."
A quel punto Virgilio si mosse e lo seguii.